Sottosegretario a Palazzo Chigi, l’ex magistrato gode di ottimi rapporti con Vaticano e Quirinale e, dicono, conta persino più di vari ministri
Nel cerchio magico di Giorgia Meloni, sta assumendo un peso specifico sempre più rilevante Alfredo Mantovano, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Il sessantacinquenne leccese ha un curriculum importante: magistrato dal 1983 e poi, dal 1996, impegnato in politica con Alleanza Nazionale con ruoli di crescente importanza, quali deputato, senatore e poi per due volte sottosegretario all’Interno nei governi Berlusconi (2001/06 e poi 2008/11).
Con la strabordante vittoria di Giorgia Meloni alle politiche dello scorso 25 settembre è stato promosso a Palazzo Chigi, un ruolo al quale dallo scorso novembre ha aggiunto quello di Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica. Una posizione, quest’ultima, di estrema delicatezza, soprattutto in tempi nei quali il rischio di attacchi informatici fa sì che ogni computer, ogni tablet e ogni smartphone sia potenzialmente oggetto delle attenzioni di malintenzionati. A ulteriore dimostrazione della centralità di Mantovano nel governo-Meloni va sottolineato come nella storia del Paese sia proprio lui il primo non-tecnico ad avere la delega alla Cybersecurity.
La fiducia della Presidente del Consiglio nei suoi confronti è enorme. Se fossimo nel film “Le Iene”, Mantovano sarebbe il Mr Wolf della situazione, quello che viene chiamato in causa per “risolvere problemi”. A Palazzo Chigi, invece, il sottosegretario eclissa per importanza anche alcuni ministri. Oltre alla sua esperienza, contano i rapporti strettissimi col Vaticano: ultracattolico, frequentatore assiduo del meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, antiabortista e contrario all’eutanasia, sarebbe stato – secondo i rumors – un efficace pontiere tra Giorgia Meloni e Papa Francesco, le cui dichiarazioni pubbliche hanno più volte compiaciuto la Premier.
L’importanza di una figura politica si vede anche (e soprattutto) nei momenti di difficoltà. Non è casuale che proprio ad Alfredo Mantovano sia stato affidato il compito di rappresentare il governo in alcuni frangenti scomodi: ad esempio nel rispondere all’interrogazione delle opposizioni sul presunto conflitto di interessi della ministra Calderone nel rapporto con l’Ordine dei consulenti del lavoro presieduto da suo marito (Mantovano ha spiegato che il compito è stato delegato al sottosegretario Durigon) o nel rappresentare alle Nazioni Unite la posizione di chiusura totale dell’Italia a qualunque forma di legalizzazione delle droghe, anche di quelle leggere.
La strage di Cutro ha ulteriormente sancito l’ascesa di Mantovano, ormai vero e proprio braccio destro di Meloni. “Penso quello che ha detto Mantovano”, ha eloquentemente detto la Presidente, che di fatto ha usato l’autorevolezza del sottosegretario per “commissariare” il ministro Piantedosi, criticatissimo anche dai suoi colleghi di maggioranza per la gestione della tragica vicenda. E’ stato infatti Mantovano a dichiarare pubblicamente che bisogna cambiare la legge Bossi-Fini sull’immigrazione: una svolta epocale per il centrodestra, che per vent’anni l’ha assunta come sua bussola sul tema. Nemmeno il centrosinistra, pur criticandola apertamente, aveva mai osato mettervi mano.
Definito l’“anti-Piantedosi” da alcuni giornali, con la sua influenza sta facendo venire qualche mal di pancia a Matteo Salvini, ma dalla sua ha anche un rapporto privilegiato con il Quirinale, altro asso nella manica che ne consolida il potere. Passano quindi dal suo vaglio tutte le decisioni importanti, comprese dei ministri in quota-FdI. Persino Carlo Nordio, che pure fu scelto da Meloni come candidato di bandiera alla Presidenza della Repubblica, dovrà fare i conti con Mantovano: sulla separazione delle carriere tra giudici e pm il potentissimo sottosegretario è d’accordo, sul resto delle riforme proposte un po’ meno. E non è certo un dettaglio.